sabato 8 marzo 2014

La cognizione degli elettrologi




"Fra le ville della costa di San Juan, lungo lo stradone del Prado, (saettavano i rimandi rossi dei loro vetri avverso il taciturno crepuscolo), c'era anche, piuttosto sciatta, e ad un tempo stranamente allampanata, Villa Maria Giu­seppina; di proprietà Bertoloni. Il crepuscolo, e il suo fron­te malinconioso e lontano, appariva striato, ad ora ad ora, da lunghe rughe orizzontali, di cenere e di sanguigno. La villa aveva due torri, e due parafulmini, alle due estremità d'un corpo centrale basso e lungo; tanto da far pensare a due giraffe sorelle-siamesi, o incorporàtesi l'una nell'altra dopo un incontro a culo indietro seguito da unificazione dei deretani. Dei due parafulmini, l'uno pareva stesse me­ditando un suo speciale malestro verso nord-ovest, oh! una trovata: ma diabolicamente funzionale: e l'altro la stessa precisa cosa a sud-est; e cioè d'infilare il fulmine, non ap­pena gli venisse a tiro, sul « confinante » di destra: e l'al­tro invece su quello di sinistra: rispettivamente Villa Enri­chetta e Villa Antonietta. Accoccolate lí sotto, in positura assai vereconda, e un po' subalterna rispetto alle due prò­tesi di Villa Giuseppina, e gittate di chiaro, avevano quel­l'aria mite e linfatica che vieppiú eccita, o ne sembra, il crudele sadismo dell'elemento.

Questo sospetto della nostra immaginosa tensione era divenuto scarica della realtà il 21 luglio 1931, durante l'imperversare d'una grandinata senza precedenti nel seco­lo, che locupletò di pesos papel tutti i negozianti di vetri dell'arrondimiento. 

Descrivere lo spavento e i cocci di quella fulgurazione cosí inopinata non è nemmeno pensabile. Ma il diportamento scaricabarilistico dei due parafulmini ebbe strasci­chi giudiziari, - subito istradati verso l'eternità - tanto in sede civile, con rivendica di danni-interessi, perizie tecni­che, contro-perizie di parte, e perizie arbitrali, mai però accettate contemporaneamente dalle due parti; - quanto in sede penale, per incuria colposa e danneggiamento a pro­prietà di terzi. E ciò perché la causa appari, fin dal suo principio, delle piú controverse. « Che ce ne impodo io », protestava il vecchio Bertoloni, un immigrato lombardo, « se quel ludro non sapeva neanche lui dove andare? ». Il fulmine infatti, quando capi di non poter piú resistere al suo bisogno, si precipitò sul parafulmine piccolo; ma non parendogli, quella verga, abbastanza insigne per lui, rim­balzò subito indietro come una palla demoniaca e schiantò su quell'altro, un po' piú lungo, della torre piú alta, e cioè in definitiva allontanandosi da terra, cosa da nemmen cre­derci. Lí, sul riccio platinato e dorato, aveva accecato un attimo il terrore dei castani, sotto la nuova veste d'una palla ovale, - fuoco pazzo a bilicare sulla punta, - come fosse-preso da un bieco furore, nell'impotenza: ma in real­tà sdipanando e addipanando un gomitolo e controgomi­tolo di orbite ellittiche in senso alternativo un paio di mi­lioni di volte al secondo: tutt'attorno l'oro falso del riccio, che difatti avea fuso, insieme col platino, e anche col fer­ro: e smoccolàtili anche, giú per la stanga, quasi ch'e' fus­sero di cera di candela.

Poi sparnazzò un po' dappertutto sul tetto, sto farfal­lone della malora, e aveva poi fatto l'acròbato e la sonnam­bula lungo il colmigno e la grondaia, da cui traboccò in cantina, per i buoni uffici d'un tubo di scarico della gron­daia medesima, resuscitandone indi come un serpente, in­trefolàtosi alla corda di rame del parafulmine piccolo, che aveva viceversa l'incarico di liquidarlo in profondo, sta stupida. E in quel nuovo farnetico della resurrezione si diede tutto alle rete metallica del pollaio retrostante il ca­samento della Maria Giuseppina (figurarsi i polli!) alla quale metallica non gli era parso vero di istradarlo issofat­to sulla cancellata a punte, divisoria delle due proprietà confinanti, cioè Giuseppina e Antonietta: che lo introdus­se a sua volta senza por tempo in mezzo nella latrina in ri­parazione, perché intasata, del garage dell'Antonietta, don­de, non si capì bene come, traslocò immantinente addosso alla Enrichetta, saltata a piè pari la Giuseppina, che sta in mezzo. Ivi, con uno sparo formidabile, e previo annienta­mento d'un pianoforte a coda, si tuffò nella bagnarola asciutta della donna di servizio. Stavolta s'era appiattito per sempre nella misteriosa nullità del potenziale di terra. - Furono le diverse perizie che via via permisero di deli­neare, per successivi aggiustamenti, in un atlante di carta bollata, questo catastrofico « itinéraire ». Ciò in un primo tempo. In un secondo tempo, furono le perizie stesse a in­torbidar le acque, ossia a mescolar le carte, a un tal segno da rendere impensabile ogni configurazione di percorrenza. Il muratore di villa Enrichetta, con il buon senso proprio de' paesani, affacciò una sua ipotesi, d'altronde plausibi­lissima: che l'ultimo indietreggiamento del giallone, così lo chiamò, fosse dovuto al fatto d'aver trovata intasata la canna della latrina; per cui non poté usufruire del passag­gio necessario a un tanto fulmine. Ma gli elettròlogi non ne vollero sapere d'una simile ipotesi, e sfoderarono delle equazioni differenziali: che pervennero anche a integrare, con quale gioia del cav. Bertoloni si può presumere.

Parallelamente a ciò, nel mito e nel folklore del Serru­chón si fece strada l'idea che il pianoforte sia strumento pericolosissimo, da carrucolar fuori in giardino senza per­dere un istante, non appena si vede venire il temporale.

La disgrazia, per il cav. Bertoloni, sarebbe stata ancora sopportabile, se durante l'elaborazione delle perizie di par­te e la celebrazione d'un primo tentativo di procedura ar­bitrale, a complicare maggiormente le cose, e a stroncar netta ogni speranza di composizione, un,secondo fulmine non fosse caduto sulle tre ville, omai affratellate dalla « lubido » celeste; e cioè due anni dopo la scarica della ba­gnarola, nel giugno del '33. Chiamati ad ennesima perizia i piú occhialuti ingegneri elettrotecnici di Pastrufazio, essi arrivarono in locum una stupenda mattina di mezzo ago­sto, con ogni sorta di strumenti in scatola, delicatissimi, e ohmetri e ponti di Wheatstone portatili, d'una fragilità estrema: ma in quel giorno si celebravano a Terepàttola le esequie di Carlos Caconcellos, il grande epico maradaga­lese che era venuto a mancare due giorni prima, piomban­do nella costernazione il mondo letterario, e i poeti epici in particolare misura. Sicché gli ingegneri, nella villa de­serta, e privata anche del custode, non avevano potuto combinar nulla. Da alcuni anni il Vegliardo aveva in affit­to la villa, dove soleva trascorrere-la maggior parte del­l'estate assistito dalla fedele Giuseppina, educando rose e amaranti, e pomidoro, nel « parterre » a occidente del ter­razzo, ma rifiutandosi di adibir cure al pollaio: che giudi­cava, quella, banalità indegna del cantore di Santa Rosa: e i cui coccodé lo avrebbero sicuramente incomodato nella elimazione de' suoi dodecasillabi eroici e di alcuni tetra­metri giambici, ancora piú difficili dei primi. Solo la serva, dentro quel rugginoso e fulgurato recinto, gli allevava di scondone un qualche pollo immalinconito e pieno di pi­docchi, che risultava poi, all'atto pratico, assolutamente immangiabile." (da 'La cognizione del dolore' di Carlo Emilio Gadda)

E a Gadda è dedicato questo testo dei Marlene Kuntz, una delle ultime loro cose che sono riuscito ad ascoltare. Correva l'anno 2005! 


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